La Stampa - di S. Cappelletto

2007

"Attenti al 7, è l'ossessione più dolce"

Quando l’Angelo aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio, e furono date loro sette trombe». Apocalisse di Giovanni, capitolo decimo: la rivelazione dell’eternità che verrà e salverà è affidata al numero sette. Esattamente questa frase dà avvio al quarto episodio di «Epta», un brano musicale «in sette movimenti per sette esecutori» che il compositore Nicola Piovani, premio Oscar per la colonna sonora di «La vita è bella», ha scritto per il Festival. Debutto domani, alle 21, alla Sala Petrassi del Parco della Musica. Le voci, registrate, di Piergiorgio Odifreddi, Omero Antonutti, Ascanio Celestini, Mariano Rigillo, Vincenzo Cerami, Luigi Proietti, leggeranno sette testi diversi, scelti e ordinati dallo stesso Piovani.

«La seduzione del numero sette - scrive il musicista - ha qualcosa di indefinibile, ma poco legata alle superstizioni cabalistiche o esoteriche o paramistiche con le quali ho poca frequentazione e confidenza».

Sette è un ritmo o una legge, per un musicista?

E’ un ritmo asimmetrico, una dèroga alla geometria dei poligoni regolari, una pulsazione di danza macedone, un vezzo del compositore occidentale.

Sette biblico o folklorico, con quei ritmi sghembi, zoppicanti? Invocazione di eternità o di danza?

L’eternità dell’attimo: è l’unica eternità frequentabile che conosco. C’è chi la invoca con una danza, chi la intravede scrivendo una partitura ambiziosa. L’eternità cosmica di Eros è più seducente dell’eternità favolistica della Bibbia.

La legge: proprio Bach - penso ai Libri di preludi e fughe - ci insegna che in musica la legge non è mai nemica dell'invenzione.

Anche perché senza legge non c’è dèroga: appunto i preludi e fughe di Bach sono costruiti con milioni di microtrasgressioni su fondamenta armoniche di cemento armato. Piccoli cromatismi, anticipi, ritardi: invenzioni che, nel caso di Bach, si possono chiamare divine senza perdere di laicità. I fondamentali sono imprescindibili per inventare, anche nel calcio.

 E il dodici, altro numero musicale, non l'affascina?

Non ci ho mai pensato... ma credo di avere un’inclinazione affettiva per i numeri primi.

Quale il rapporto fra i testi e il contesto di "Epta"? Come li ha scelti, ordinati?

La griglia di partenza era talmente “matematica” che mi sono permesso di scriverci dentro a briglia sciolta. Mi spiego meglio: ho cercato di mettere sul pentagramma sette flash emotivi, sette stazioni del mio personale cammino passionale. Partendo dall’antico rompicapo geometrico dell’ettagono e finendo sul ricordo infantile di una filastrocca di Carducci. Passando per lo spaventoso approccio con quelli che gli scienziati chiamano “I sette enigmi irrisolti del millennio”, e poi la danza di Salomè, ballerina che seduce un patrigno a fine delinquenziale. E ancora: il ricordo di quando, a sedici anni, ho visto per la prima volta la partita a scacchi con la morte dello scudiero del “Settimo Sigillo”, la seducente topografia della città di Tebe, l’eterno fascino straziante dei versi del “Come vi piace” di Shakespeare.

Mi piace il suo modo di raccontare la musica che scrive: quasi scientifico, così dettagliato, preciso. Forse è l'unico modo di parlare di musica oggi.

Magari è anche un modo che mi serve per nascondere il subbuglio viscerale che c’è dentro alla cosiddetta Ispirazione – termine desueto, ma non me ne viene un altro. Mi piace mettere ordine fra le pieghe delle partiture, guardarle con occhio cartesiano, come quando il foglio è vuoto, prima di cominciare a scrivere. E’ anche un modo per intendersi con il prossimo sulle buone intenzioni che ci sono dietro la composizione di un’opera musicale, anche magari di un’opera mal riuscita.

C'è un'altra cosa che accomuna matematica e musica: nessuna delle due viene insegnata bene a scuola. E le conseguenze si vedono...

E come no! Pensi al grande equivoco di fondo: quando si insegna musica, la si insegna pensando di sfornare per il futuro nuovi esecutori, nuovi compositori, critici, musicologi. Mentre abbiamo bisogno di una scuola che insegni l’arte dell’ascolto. La nostra civiltà italiana è carente di buoni ascoltatori: spettatori di concerti, persone che, facendo un mestiere diverso dal musicista, sappiano distinguere all’ascolto una buona musica. Avvocati, farmacisti, ragionieri, elettricisti in grado di apprezzare un preludio di Debussy, di amare un lied di Schubert e di distinguerlo da una canzone di Califano. In un quiz televisivo hanno domandato: chi è l’autore di “Nessun dorma”? Verdi, Puccini o Pavarotti? Provi a indovinare la risposta del concorrente? In matematica, come mi conferma Odifreddi, non mi sembra che stiamo messi meglio.

Può farmi qualche esempio di partiture che l'hanno affascinata proprio per il loro carattere numerico, la loro rigorosa organizzazione formale?

L’Ottetto per fiati di Stravinsky, che sembra un dipinto su carta a quadretti, con una pulsazione ritmica a scansione mozzafiato, sulla quale volano scintille di invenzione che dànno veramente l’idea di cos’è la libertà creativa. Poi, naturalmente, l’Arte della fuga di Bach: non bastano cento pagine per illustrare, spartito alla mano, il genio che dispiega quei cento canti commoventi dentro regole di acciaio, regole rispettate con amore religioso. Ma mi permetta di ricordare anche Summit, un disco di Astor Piazzola e Gerry Mulligan che duettano su severi schemi ritmici di tango, dimostrando sul campo che la vera libertà espressiva di certi artisti sa volare ben in alto dentro perimetri formali fissi.

Lei è molto attento al patrimonio delle musiche folkloriche. In questa musica, nel jazz - il riferimento che fa alla 'nota blu' - esiste attenzione al problema della forma, dell'organizzazione del materiale?

Le note blu alle quali mi riferisco sono soprattutto nel quarto movimento, “Il Settimo Sigillo”: quelle note che glissano di mezzo tono sul terzo grado della scala, sfumando la nota da terza maggiore a terza minore – e viceversa. Nel Jazz questi piccoli glissati sono affidati all’estro, all’ improvvisazione dell’esecutore, mentre in Epta le note blu glissate del violoncello sono tutte scritte nella partitura, e vogliono dàre il senso della costrizione dello strumentista, più che la libertà individuale di inventare: come se ci fosse una forzatura a scolorare dal maggiore in minore, dal minore al maggiore, contro la volontà dello strumento stesso. Naturalmente anche in questo caso non ho inventato niente di nuovo: altra musica del passato aveva usato questi accorgimenti – mi viene in mente Ravel per esempio.

A quando una sua suite sul nome BACH?

Non ci ho mai pensato, ma adesso che lei me lo suggerisce, chissà...

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