Il Messaggero - di L. Vaccari

30 Nov. 2005

Il senso della vita

«Bella domanda!... Sì naturalmente, mi interrogo sul senso della vita: come tutti, penso, o quasi tutti», dice Nicola Piovani, romano, 59 anni, compositore, direttore d’orchestra, pianista, premio Oscar per il film La vita è bella di Roberto Benigni. Aggiunge: «Cercare un senso degno nelle giornate che si vivono mi sembra un’esigenza insopprimibile. C’è chi questo senso lo trova nel volontariato, chi nell’arraffare quanti più soldi possibile, chi nel perpetuare il mito funebre di Don Giovanni o quello suicida di Narciso. E io non rinuncio, fra lampi e smarrimenti, alla ricerca della dignità del vivere».

Che cosa intende per dignità del vivere?

«Rispetto per la vita e per il prossimo. La voglia di non vivere a caso, di distinguere sempre la differenza tra la convenienza e la convinzione. A volte è faticoso».

Quando si è manifestata questa necessità?

«Almeno dall’adolescenza, se non prima. Crescendo mi sono reso conto che gli interrogativi senza risposta che si pongono i bambini – la vita, la morte, l’universo – vengono metodicamente rimossi dagli adulti. E’ una forma di difesa: “Se non si trova la risposta è meglio non porsi la domanda”. E questo è il primo gradino di una scala che porta verso il Prozac».

E’ riuscito a scansarlo?

«Per ora sì».

La domanda di senso scaturiva da esperienze dolorose?

«Le esperienze dolorose che prima o poi, più o meno toccano a tutti, cambiano la visuale, il repertorio delle risposte possibile».

Non ne intravedeva nessuna che fosse plausibile?

«Fin quando non si accetta l’idea del mistero, che è un’idea bella e rispettabile, non si riesce neanche ad abbozzarle le risposte».

Un giorno ne è stato capace?

«La risposta non si capisce, si sente… ma appena provi a verbalizzarla, a ingabbiarla nel perimetro angusto della logica, svanisce… come svanisce una musica bella e divina quando c’è un critico che vuole spiegartela. Perché il divino non esiste: il divino è».

La pressione degli anni ha confermato o negato la risposta che aveva “sentito”?

«Se ti accade qualcosa che ti fa intravedere più da vicino la morte, intendo la tua morte personale, poi ti concedi meno divagazioni, meno superficialità, ti stacchi dal mito della tua invulnerabilità, ti cresce il desiderio di stare bene al mondo, e non solo in modo edonistico».

La domanda, con le tragedie di ogni genere che opprimono l’umanità, fino a prefigurare la sua autodistruzione, è oggi più insistente?

«Le grandi tragedie planetarie sono sempre esistite: la differenza è che oggi sono tutte vicine, non esistono più Paesi lontani, le immagini degli orrori ti entrano in casa mentre ceni o fai un sudoku. Ed è sempre più difficile rimuoverle, non fare i conti con il lato bestiale della natura umana. Si può non credere in Dio, ma come si fa a non credere a Satana di fronte a certe notizie?».

 A che cosa, comunque, vorrebbe attribuire un significato alto e compiuto? Alla paternità?

«Ovviamente sì, visto che la paternità è stata ed è l’esperienza di vita più alta che mi sia toccata».

Alla musica?

«Anche. Naturalmente non alla musica mia, ma alla musica della storia dell’uomo, che è una delle testimonianze più irrazionali e convincenti dell’esistenza del soprannaturale. Lei provi ad ascoltare un movimento dell’op. 110 di Beethoven pensando da positivista: io non ce la farei mai. E poi mi piace anche scorgere i segni di un senso alto e divino in certe sensazioni quotidiane minime: l’abbraccio di un amico, un caffè felice preso al bar, certe albe sull’autostrada, certi attimi in cui si alza il sipario di un teatro, l’odore del sugo domenicale nei condomini, l’erotismo di certe strade primaverili».

Alla fede in una religione?

«In tante religioni: lo sforzo creativo di dare un volto all’invisibile, la tensione verso l’oltre e verso l’altro sono momenti potenti e nobili dell’animo collettivo. Ho provato una grande emozione tutte le volte che ho partecipato a manifestazioni rituali popolari: la messa di Pasqua a Betlemme, la Madonna dell’Arco a Napoli, la festa del Ramadàn a Istanbul, la processione di Sant’Agata a Catania, il suono dello Shofàr nel giorno del Kippùr… Mi sembrano tutti forti antidoti contro la gabbia dell’egocentrismo e del marketing che ci asfissia. Sono manifestazioni bellissime, e lo saranno fino al giorno in cui non diventeranno delle dirette televisive. Quando ero bambino c’erano in Italia preti e democristiani che censuravano in televisione anche un ingenuo can-can. Come se le gambe di Delia Scala fossero un immagine dell’inferno, mentre a me sembravano già allora un’anticipazione del paradiso. Non è il relativismo che fa male alla religiosità, ma la sessuofobia. Chi è davvero cristiano dovrebbe lottare contro le armi, la guerra, la pena di morte, non contro i preservativi e le coppie gay».

Queste ultime risposte riescono ad annullare l’angoscia della fine?

«Quando nasciamo e cominciamo a guardare il mondo, non possiamo non affidarci agli unici due parametri che abbiamo a disposizione: lo spazio e il tempo. Quello che non rientra in queste due coordinate non lo comprendiamo. Non possiamo vedere nulla oltre le tre dimensioni geometriche che abbiamo in dote. Ma le dimensioni esistenti sono molte di più: non ce lo dice la fede, ce lo dice la scienza. Quando scadono i primi nove mesi di vita, nel ventre materno, non vorremmo mai nascere, non vorremmo mai uscire dalla dimensione nota, amniotica, verso una dimensione ignota, ariosa: piangiamo, urliamo, opponiamo una resistenza ostinata  e drammatica all’ostetrico e alla luce accecante.
E anche quando la morte si preannuncia puntiamo disperatamente i piedi contro l’ignoto, contro il nostro epilogo esistenziale. Certo, se fossimo rassicurati, se sapessimo di finire in un posto dove si può sentire almeno un giornale radio, ricevere una e-mail… Federico Fellini mi diceva: “La morte mi fa una gran paura, ma mi provoca anche una grande curiosità”. A me è servito molto leggere gli scritti pseudo-filosofici di Einstein, con il loro candore quasi ginnasiale, per capire che la morte, come la intendiamo e la paventiamo noi, non esiste. Come sempre, sono gli artisti e gli scienziati che mi fanno accostare alla religione, e sono i cardinali e gli ayatollah che me ne fanno allontanare. Quando leggo i testi di Hawking o di Odifreddi capisco meno della metà di quello che leggo, ma me li godo per intero, con uno stupore misterico maggiore di quando leggo la Bibbia. Anche le dichiarazioni di felice ateismo della grande Margherita Hack, che ho letto su queste pagine, mi entusiasmano: il suo amore per il prossimo, per il dovere e il sapere, il suo occhio consumato su un telescopio per la voglia di capire di più, il suo bel sorriso combattivo, mi mettono addosso una gioia di vivere, una forza morale che non so separare da un sentimento sacro della vita».

Affida alla curiosità i significati ultimi?

«Ultimi addirittura? Ma lo sa cos’ho letto di recente? Un articolo di scienza, divulgativo ovviamente, nel quale si ipotizza che l’universo non sarebbe uno, ma solo uno dei tanti milioni di uni-versi… Non lo dice un teologo, lo dicono ricercatori più che laici, gente che passa la vita a studiare le stringhe, le quali, se non ho capito male, sarebbero una porzione infinitesimale del Quark. Navigare nelle galassie, fra ellissi e polvere cosmiche. Beh, in questa realtà – una realtà non di fede, ripeto, ma di scienza – andare a cercare il significato ultimo e il significato primo mi sembra come cercare di sapere qual è la prima goccia di un oceano. Comincio a pensare che quella che chiamiamo Teoria dell’Universo contenga in sé un mezzo ossimoro, e il termine Big-bang mi pare a volte niente più che un sintagma esoterico, scaramantico. Francamente, trovo più risposte in un Padre Nostro detto a fior di labbra».

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